PyeongChang-5
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Il mio primo contatto con la delegazione nordcoreana alle Olimpiadi è avvenuto oggi… in bagno. All’ingresso del container adibito a toilette presso la pista di slalom di Yongpyong dove era in programma la gara femminile (poi rinviata come da consuetudine di questi giorni) c’erano due uomini, ho pensato che fossero in coda e invece mi hanno invitato a entrare. Dentro c’erano altri tre uomini in tenuta sportiva della Nord Corea, che espletate le loro funzioni sono usciti. Quando sono uscito anche io, i due che avevo incontrato all’ingresso non c’erano più: avevano accompagnato gli altri e li avevano rimessi sotto scorta all’uscita.

Raggiunta la mia postazione in mixed zone, mi sono collegato con Roma e in questo frangente ho mostrato lo spettacolo messo in scena dalle cosiddette cheerleaders che Kim ha inviato dal Nord a PyeongChang. Uno spettacolo divertente, visto da fuori. Le ragazze, dovrei dire piuttosto le bambine, perfettamente sincronizzate tra loro, hanno cantato per quasi un’ora, guidate da una direttrice del coro. Alle loro spalle tre uomini tenevano due bandiere nordcoreane e una bandiera con la penisola coreana in azzurro, senza confini. A un certo punto un gruppo di sudcoreani, tutti attrezzati con la bandiera dell’unificazione, hanno cominciato a contrappuntare il canto delle ragazze del nord. Ne è nato uno scambio basato, mi è sembrato di capire, su canzoni popolari condivise. Dal Nord si lanciava una strofa, dal Sud si rispondeva. Alla fine di ogni esibizione, le ragazzine in rosso si lanciavano in un applauso. Tutto divertente, tutto anche tenero.

In quei momenti, come ho detto, ero collegato in diretta per parlare dell’ennesimo annullamento di una gara di questa strana Olimpiade, ma appena possibile mi sono avvicinato al gruppo insieme all’operatore Willy Tschager per riprenderle più da vicino; ma proprio in quei minuti le ragazze sono state portate fuori dallo stadio. Mi sono sfilate davanti una a una, tutte con lo stesso sorriso che non hanno abbandonato neanche per un istante durante tutta la loro permanenza nel centro dedicato allo sci alpino. Alcune alzavano una mano per salutare ma nessuna rispondeva ai saluti degli altri, non un filo di voce oltre a quella usata durante l’esibizione.

Mi sono accodato, immediatamente il corteo in rosso è stato blindato da uomini che portavano un accredito con su scritto “antiterrorismo”, la formula che il CIO ha adottato per far entrare nei siti olimpici i funzionari dei servizi di sicurezza nordcoreani. Mi sono avvicinato a uno di loro e ho chiesto di poter avere una delle bandierine del Nord che le ragazze avevano con sé. Il tipo che mi si è parato davanti come a bloccare un ulteriore mio passo in avanti era alto non più di un metro e 65, ma sospetto che non sarebbe stato facile affrontarlo in un match di taekwondo. Non mi ha neanche risposto, mi ha solo mostrato le braccia incrociate davanti al petto, gesto coreano per indicare uno stop, un divieto. Ho riprovato, puntando sulla comunicazione, ottenendo come risposta solo un altro gesto accompagnato da uno stop. Al mio ok e al mio passo indietro, finalmente l’uomo ha abbassato le braccia, ha accennato perfino un mezzo sorriso e ha mormorato un “thank you” prima di andarsene.

È stato a quel punto che la tenerezza provata per quelle bambine è stata sopraffatta dall’angoscia per la loro condizione. Vedendole cantare ho sperato di poter andare oltre le sensazioni che i media ci convogliano quando parlano del 38′ parallelo. Ho pensato che anche queste bambine, dentro il loro cuore, sentissero il piacere di essere in mezzo a loro fratelli, qui al Sud. E ho sperato che anche i grigi funzionari che le scortavano potessero provare lo stesso sentimento. Magari non è tutto come ci raccontano, questo ho pensato. Ma gli sguardi duri degli agenti di Kim, l’impossibilità di avere qualunque contatto con la delegazione, i sorrisi delle ragazze troppo insistiti per essere veri, mi hanno convinto che sarà davvero difficile instaurare condizioni nuove al Nord.

Forse avrei dovuto sfruttare meglio quel momento di solitudine, io e tre di loro, da soli, nel bagno di una pista olimpica di sci. Chissà se avrei mai raccolto una battuta, uno sfogo, una denuncia. Mi viene in mente un altro Paese simile, per il culto della personalità del capo espresso con ogni forma artistica. Un Paese che sembrava senza speranza, come la Corea del Nord di oggi: la Romania di Ceausescu. Forse le ragazze del coro cresceranno in un Paese diverso.

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