Tokyo, giorno 10
Tokyo, giorno 10

Tokyo, giorno 10

Giornata paradossale per i trasporti, quella di ieri. Quando sono sceso nella hall mi hanno detto che per errore la navetta per l’IBC era partita in anticipo. Ovviamente nessun rimedio, la successiva sarebbe partita un’ora dopo come previsto. C’è una soluzione, però, mi dicono, spostarsi in un altro hotel a 800 metri di distanza, da dove sarebbe partito un altro bus. Mi incammino nella soffocante afa estiva di Tokyo e raggiungo l’hotel dove un volontario, non senza difficoltà e nonostante l’utilizzo di una app di traduzione, mi fa capire che lì bus per l’IBC non ce ne sono. Mi faccio chiamare un taxi dalla reception. Dieci minuti dopo vedo un’auto fare capolino timidamente all’angolo della strada dov’ero in attesa. È lui. Dove per lui si intende un anziano conducente, che prima mi fa salire poi informa la sua centrale della mia presenza a bordo. Neanche lui, come il 99% dei giapponesi, parla inglese. Ma non che ci si aspettasse dei discorsi, eh, proprio neanche una parola. Sto cominciando a capire qualcosa dei giapponesi, il fatto che ti dicano sì e confermino con un cenno della testa non significa affatto che abbiano capito, anzi. Se ripetono ciò che gli hai appena detto hai la conferma che le cose stanno andando storte. IBC è arabo per il mio vecchietto, per fortuna invece su Tokyo Big Sight, che è proprio lì vicino, sembra illuminarsi. Partiamo. Decido di attivare Maps per sicurezza e faccio bene, perché dopo un po’ i tempi di percorrenza si allungano. Quando l’autista accosta capisco che non sa più dove andare. Mi sporgo, cerco di fargli capire che lo avrei guidato io con la mappa, lui mi invita a rimettermi sul sedile con questo fare tutto giap, apparentemente servile ma forse, in fondo, passivo-aggressivo.

Ripartiamo. A un certo punto lui mi fa cenno che avrebbe girato a destra. Maps non è d’accordo e decido di seguirlo. Dico all’autista che no, dobbiamo andare dritti. Lui si pianta in mezzo alla strada, dietro suonano e spero non ci arrivi sul collo un camion. L’omino guida proprio come i nostri vecchietti, però senza cappello. Alla fine va dove gli dico. Arriviamo a un altro incrocio, gli dico di andare right, a destra. Lui chiede conferma: right? e fa un chiaro cenno con la mano di voler svoltare a sinistra. NOOOO!!! RIGHT! DESTRA! DERECHA! DROIT! Ce la faccio. Vedo il Big Sight. Ok, stop here! Non capisce. Ok! Ok! OK!!! Si ferma. compilo il voucher, scendo.

Con Giulia e l’operatore partiamo per Shiokaze Park, l’isola ex discarica dove ora sorge la bellissima arena del beach. Finiamo a tarda sera e il giorno dopo c’è la levataccia prima per collegarci con Go Tokyo e poi commentare le ragazze contro l’Argentina, allora decidiamo di tornare in taxi. Sentite anche voi il profumo della tragedia, vero? Mentre finisco di lavorare, tra mixed zone e testi per i tg e le rubriche, Giulia riesce a farsi mandare un’auto telefonando alla centrale nonostante nemmeno lì ci fosse uno che parlasse inglese. Passano i minuti, l’auto non arriva. Per fortuna l’autista chiama, la security non lo fa entrare. Il solito volontario con l’app per le traduzioni ci fa perdere tempo dandoci un sacco di informazioni inutili senza capire il problema. Giulia ha fame e sonno, e lei non sopporta di avere fame e sonno in fasi distinte, figuriamoci insieme. Il volontario se la vede brutta. Decidiamo di uscire, il nostro taxi è lì che gira e alla fine ci raggiunge. Rientriamo che è abbondantemente passata mezzanotte e non si è ancora mangiato.

Il mio frigo per fortuna è fornito. Prendo una confezione di verdure, dentro in verità ci sono delle fettuccine condite con roba verde. Accompagno con delle zucchine: sono cetrioli tagliati con l’inganno. Sipario, buonanotte.

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