L’ultima sera è stata davvero una sera da ricordare. Dopo aver commentato la medaglia d’oro degli Usa, che hanno vinto il torneo femminile di volley battendo il Brasile, Giulia e io ci siamo dati appuntamento per un giro turistico in alcuni luoghi che lei voleva vedere assolutamente, tra i quali un paio di templi. Mentre lei visitava il primo io facevo una veloce commissione. Nel frattempo, Giulia faceva uno straordinario incontro che le invidierò per sempre: una signora giapponese di 71 anni che dopo averla salutata in almeno sette lingue diverse l’ha ringraziata per essere venuta a Tokyo. Credo che l’avrei fermata per almeno mezz’ora a parlare.
Appuntamento a Shibuya, all’enorme incrocio famoso per essere attraversato da migliaia di persone ad ogni scatto del semaforo verde. Accanto, il piccolo monumento al cane Hachiko e alla sua storia struggente. Lì abbiamo incontrato due colleghi del reparto tecnico, uno dei quali, che conosceva abbastanza i dintorni per aver girato la città prima di noi, ci ha fatto da guida. Tappa obbligata, nelle vicinanze, lo Shibuya Sky, un grattacielo di 230 metri in cima al quale si gode di una vista impressionante su tutta Tokyo. L’ultimo piano è una grande terrazza all’aperto, con alte vetrate per proteggere i visitatori (ed evitare gesti inconsulti) e numerosi agenti di vigilanza. Peccato che l’ora del tramonto, qui piuttosto precoce, sia già passata. Sullo sfondo le nubi che hanno accompagnato il nuovo tifone artefice della bella inzuppata che ci eravamo presi al mattino nel trasferimento tra Odaiba (dove siamo stati ospiti della rubrica di Arianna Secondini) all’Ariake Arena, sede della finale di volley. Sullo Shibuya Sky nulla è lasciato al caso per creare il clima giusto, dalla proiezione sul soffitto dell’ascensore per simulare salita e discesa in un tunnel di luce, alla musica d’atmosfera. Non mancano riferimenti spiritual-tecnologici, come la possibilità di toccare degli enormi pulsanti che si abbassano sotto la pressione e fissano su uno schermo l’orario del nostro intervento, come a dirci di vivere il momento, di essere presenti in quell’attimo della nostra esistenza.
Lungo trasferimento in metro, nel frattempo si è fatta ora di cena, anzi, siamo già oltre. Quasi tutti i negozi e i ristoranti sono già chiusi, in realtà, lungo la strada ci fermiamo da un tizio simpatico che con un socio vende abbigliamento hippy e ha una collezione di spille di molte edizioni passate delle Olimpiadi. È lui a indirizzarci verso uno dei pochi ristoranti aperti in zona, un sushi. E qui entriamo nell’irrealtà. Sembra una trattoria di Trastevere rimontata in Giappone, con un cameriere anziano che subito apostrofa Giulia, troppo lenta secondo lui nel prendere il menu per scegliere le portate. Ogni volta che uno di noi gli indica un piatto lui lo annota su un piccolo tablet, quindi a voce altissima passa la comanda al personale della cucina, che come in ogni ristorante di sushi che si rispetti lavora a vista vicino ai tavoli. Manca solo Lino Banfi che intona Benvenuti a ‘sti frocioni. Non smettiamo di ridere per i suoi modi, solo apparentemente scortesi ma simpatici. Una coppia di mezza età seduta vicino all’ingresso fa sapere di voler offrire i nostri drink, così a fine cena andiamo a salutarli. Proponiamo una foto ricordo fuori dal locale. Lei è parecchio su di giri, come la vecchietta incontrata da Giulia sembrano davvero contenti di vedere degli occidentali arrivati per le olimpiadi. Facciamo una foto insieme, ma la facciamo con il cellulare di lui e subito dopo ci rendiamo conto che non ci resterà testimonianza di questo incontro singolare. Nel frattempo facciamo due conti, la sensazione è che i drink ce li abbiano fatti pagare lo stesso.
Finalmente, quando ormai sono quasi le 22, raggiungiamo la vera meta del nostro spostamento: il tempio di Sensoji, uno dei più importanti di Tokyo, frequentato ogni anno da milioni di fedeli. Purtroppo non è più possibile visitarne l’ingresso, ma l’esterno e ciò che lo circonda valgono certamente la serata. Una giovane coppia, lei minuta e lui invece grosso e palestrato, sale le scale e arriva davanti all’ingresso per raccogliersi brevemente in preghiera.
Per noi è tempo di rientrare e di chiudere le valigie. Mentre ritorno penso che forse potrei abituarmi a vivere qui, in questo che sintetizzo come “un gran casino estremamente organizzato”. E me ne sorprendo, considerata la mia avversione per le grandi metropoli, ma forse è solo l’organizzazione quella che mi manca e che in Italia rende invivibili, ai miei occhi, città come Roma. A volte la rigidità dei giapponesi ci ha reso nervosi, quel loro rispetto delle regole che va a volte oltre il buonsenso e rende tutto farraginoso nel quotidiano; la barriera linguistica che in qualche occasione è stata insormontabile per l’estrema differenza di cultura che ci impediva anche di capirci a gesti. Ma questa estrema gentilezza mista a “paura” per lo straniero, questo senso di inadeguatezza che a volte ci è sembrato di riscontrare in loro nei nostri confronti, ci ha fatto provare grande simpatia. Lascio Tokyo con la sensazione che mi piacerà tornare, se le opportunità di lavoro e di vita me lo consentiranno. Addio Giappone, addio tassisti imbranati, addio controlli di sicurezza, addio misurazione quotidiana della febbre, addio olimpiade, esaltante per come l’abbiamo portata in fondo come team Rai, con il “nonostante tutto” con il quale troppo spesso dobbiamo confrontarci. Ora qualche giorno per recuperare e via con gli Europei di pallavolo in un orizzonte nuovo, in un East molto meno Far, la Croazia e la Serbia.
Addio, gelatine di frutta.
Bellissimo, mi è sembrato di essere lì con voi.
Per me il Giappone rimane il viaggio della vita e se non ce la farò a vederlo grazie ai tuoi racconti è come se l’avessi visto.
Grazie Marco
Grazie a te